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Due modi di condividere: tu che condi-tipo sei?

i due modi di condividere

Ieri mi è capitato qualcosa che mi ha fatto riflettere. No, lo scenario non è quello classico del bagno, luogo magico per l’ispirazione universale, bensì quello che pongo al secondo posto della mia personale classifica: la cassa del supermercato.

Mentre sei lì in fila ne senti di tutti i colori, dai gossip alle lamentele, fino ad arrivare alle più assurde cospirazioni e segreti industriali.

Due donne sulla quarantina confabulavano tra loro (a voce alta, chiaro, sennò che gusto c’è?):

Signora 1: “Ho scoperto che a scuola c’è internet che funziona solo su un computer. Ora sto facendo di tutto per evitare lo scoprano gli altri!

Signora 2: “Fai bene, sennò se lo sanno tutti poi probabilmente lo staccano. A proposito, sai che nella scuola di mia figlia va quella ragazza del video del centro commerciale?”

Signora 1: “Quale ragazza?”

Signora 2 (illuminandosi): “NON LO SAI?! Aspetta, aspetta, che ora ti mando una cosa…

Nello specifico, la Signora 2 si riferiva a un video che mostra due ragazzi in piene effusioni ripresi qualche giorno fa da una telecamera a circuito chiuso di un centro commerciale a Palermo. Il video, ripreso poi col cellulare da una vigilante, è stato condiviso a mezza città tramite whatsapp .

Al di là dell’aspetto etico (e legale, come dirò dopo), in quella breve conversazione c’è il succo della filosofia nostrana legata al condividere.

Che significa condividere? Dal polveroso dizionario (bugia, ho cercato su Google) leggo:

possedere insieme, partecipare insieme, offrire del proprio ad altri

Si, ok, in quale dei due modi?

La condivisione come crescita del proprio gruppo

Il membro di una tribù scopre una nuova fonte di cibo che può garantire la sopravvivenza del proprio gruppo. Ha due scelte: condividere l’informazione o tenersela per sé. Nel primo caso, anche in caso di sua morte prematura, il gruppo sopravviverà. Nel secondo, tutti patiranno il suo egoismo.

Scelta ovvia e obbligata? Non direi. La natura ce ne suggerisce una, la società spesso spinge per l’altra.

Hai mai notato che nella nursery di un ospedale se un neonato inizia a piangere è seguito a ruota dai vicini di culla (che a loro volta ne stimoleranno altri, in una diffusione virale del pianto)? Freud lo chiamò contagio emotivo ma io te ne do una versione mista tra antropologia e social: se un bambino piange lo fa o per un malessere personale o perché qualcosa l’ha spaventato. Se qualcosa spaventa allora è potenzialmente pericoloso, dunque il suo pianto è una specie di tweet alla sua cerchia di conoscenze che a sua volta lo retwitta, come se tutti si mettessero all’erta nel nome della sopravvivenza comune.

In epoca social le informazioni utili da condividere non sono mai abbastanza. Tuttavia vige spesso il ragionamento della Signora 1 legato a internet: se non lo dico, ne traggo un vantaggio. E’ il caso di chi scopre l’uscita di un bando di concorso ma non lo condivide, sfregandosi le mani al pensiero che meno concorrenti lo sanno, meno partecipano, più possibilità ci sono di vincerlo. Peccato che poi l’informazione circoli comunque e il furbone sia costretto ad arrampicarsi sugli specchi per evitare di essere bollato come egoista da colleghi e amici, vale a dire i destinatari mancati della sua condivisione.

E se invece si fosse fatto forza e avesse condiviso la soffiata?

I partecipanti al concorso sarebbero stati altrettanti ma probabilmente molti avrebbero fatto gruppo condividendo anche altre preziose informazioni. A quel punto avrebbe prevalso non il più furbo ma il più preparato, com’è giusto che sia. Vincitore o meno, il nostro eroe avrebbe comunque guadagnato la stima della propria cerchia di conoscenze, utile in ottica futura.

La condivisione come doping del proprio ego

Torniamo alla Signora 2, quella del video. Lei non ha esitato un attimo prima di condividere materiale che potrebbe farla incriminare per pedopornografia (la ragazza ripresa è minorenne e la cosa è risaputa, vista l’eco del caso sui giornali). Perché?

Perché un’altra accezione errata e controproducente del termine condividere è (occhio alla definizione tecnica-scientifica) “guarda quanto sono figo, ti faccio vedere/sapere io per primo qualcosa di sconvolgente!

In altre parole: siccome non ho altri argomenti interessanti e personali da trasmetterti mi esalto a scapito di qualcun altro. Poco importa se rovino la vita di una ragazza, prendo in giro un compagno di classe vittima di bullismo o tramando ignoranza. L’importante è che tutto sia partito da me, che possa prendermene il merito (o ciò che credi che sia) e che possa discutere insieme a te di quanto noi non faremmo mai nulla del genere (bum!). Qualcuno potrebbe pur dire che si tratta di condividere emozioni, quelle stesse emozioni che tirano così tanto nel marketing o sui social stessi.

Ma ne vale la pena?

D’accordo, accetto i gattini, quelli sono graziosi e non fanno male a nessuno. Ma perché cibarsi della carne altrui quando la vittima è ancora viva? Nemmeno i protagonisti di “Alive, sopravvissuti” arrivarono a tanto.

La morale è solo una: quando sei lì per condividere qualcosa chiediti se ciò produrrà cultura e positività nel destinatario oppure se pomperà il tuo ego a scapito di qualcun altro.

L’essere umano è comunque straordinario. Il fenomeno del momento è la rivincita delle vittime che, sull’onda delle condivisioni altrui delle proprie gesta, hanno cominciato a monetizzare (sull’argomento leggi l’articolo “La rivincita delle schiappe: tu mi prendi in giro, io guadagno”). Ma questo risolve il problema o è solo una vittoria di Pirro che in realtà non fa altro che alimentarlo?

Tu che ne pensi? Condividi (in che senso?) ciò che dico o forse sono troppo bacchettone?

Uomo. Marito. Padre. Mi occupo di comunicazione sul web e marketing per professionisti e PMI. Scrittore per passione e narratore di aneddoti per diletto. Fedele al motto "Verba volant, scripta manent, internet docet".

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